lunedì 3 febbraio 2014

Gli Indios (continuazione)


Li guardo. Mi guardano. Sono in tre, piccoli un metro e cinquanta circa, scalzi, tatuati dalla testa ai piedi, uno ha in mano un machete, gli altri due solamente un lungo bastone a mò di lancia. I loro visi non trasmettono nulla, continuano a guardarmi scrutando quel lungo uomo bianco venuto nel loro, evidentemente, territorio. Non mi passa minimamente per la testa che siano lì per caso, l'unico ad essere lì per caso sono io. Siccome la profondità dell'acqua mi consente di stare in piedi, anche se il livello mi arriva fino alla gola, l'unica cosa che mi vieni in testa di fare è di alzare all'aria la mano ferita che dopo pochi secondi fà vedere i numerosi tagli grondanti di sangue. Uno di loro mi fa cenno di uscire dall'acqua indicandomi il punto migliore per farlo situato proprio sotto di loro. Mi faccio largo tra il fango e tra le numerose piante galleggianti, alcuni rami e radici sommerse, la cascatella che incessantemente dà il suo contributo al laghetto, e giungo a riva dove uno degli Indios mi allunga una mano ed in un attimo, quasi di peso, con un braccio potente mi solleva tra di loro. Ne scorgo altri due più arretrati, sono in cinque in tutto. Sono gli Indios Emberas.
Una lunga canoa ricavata da un grande albero mi farà arrivare, assieme ai cinque indigeni, al loro villaggio. Non dico nulla, non mi chiedono nulla. Scambiano tra loro alcune parole in un linguaggio che non comprendo proprio appena prima di salire sull'imbarcazione. Forse sto sognando ma non c'è verso di svegliarmi. E' tutto incredibilmente vero. Dodici capanne poco distanti dal fiume, o dal lago non lo so, che per evitare di essere raggiunte dai capricci dell'acqua durante la stagione delle piogge sono saldamente costruite su delle palafitte alte circa tre metri. Un paio di pigri cani si alzano qualche secondo, gironzolano per poi coricarsi nuovamente all'ombra. Galline beccano il terreno. Bimbi schiamazzano, e alla mia vista si avvicinano in silenzio a guardarmi. Donne di varie età, indaffarate in varie faccende, si affacciano dalle pareti di paglia e legno. Alcune sono proprio belle, altre meno, coperte solamente da un pareo colorato. Sono tutti scalzi. La mano mi fa male: devo avere alcune spine ancora dentro. Il sangue si è quasi fermato. Per il resto sto bene. Il villaggio è costruito in una radura ed al suo centro il sole batte con tutta la sua forza e qui, a pochi gradi di latitudine nord, si fa proprio sentire. Fa molto caldo.
Mi indicano una capanna dove salgo tramite una scala ricavata da un tronco di una ventina di centimetri di diametro, appoggiato quasi in verticale, con pochi gradi di inclinazione, all'ingresso dell'unica stanza della casa. Non c'è il passamano... mi concentro per stare in equilibrio e non cadere nuovamente! Mi fanno sedere sul pavimento e mi offrono da bere un liquido biancastro dal sapore vagamente di limone, servito in una ciotola ricavata da una noce di cocco. Di noci qui sono pieni. E dopo un paio di minuti una sonnolenza irresistibile mi fa chinare il capo in un primo momento, raddrizzo la testa sforzandomi di tenere gli occhi aperti, poi sento la necessità di sdraiarmi, poi... poi... non ricordo... gli occhi mi si chiudono e cado addormentato.

1 commento:

  1. Cosa abbiamo in comune? Un corso di vela alla Nautilago... e la passione tardiva per il mare. Piacere di conoscerti! Buon viaggio! Daniela e Andrea, Milos, Cicladi

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